Lo studio “Protected areas have a mixed impact on waterbirds, but management helps”, pubblicato su Nature da un team internazionale di ricercatori e il più grande mai realizzato sugli effetti delle aree protette e ne è venuto fuori che «le aree protette come i parchi nazionali hanno un “impatto misto” sulla fauna selvatica».
I risultati dimostrano che «la gestione dei parchi per proteggere le specie e i loro habitat è fondamentale e senza tale gestione è più probabile che i parchi siano inefficaci».
Si tratta di uno studio che a maggio sarà molto utile per i delegati della 15esima Conferenza delle parti della Convention on biological diversity (Cop15 CBD) che si riuniranno a Kunming, in Cina, per definire l’agenda della conservazione globale per il prossimo decennio ed approvare i piani per proteggere formalmente il 30% della superficie terreste e marina entro il 2030.
Ma gli autori del nuovo studio dicono che «questo da solo non garantirà la conservazione della biodiversità» e che «é necessario fissare obiettivi per la qualità delle aree protette, non solo per la quantità».
Lo studio, guidato dalle università britanniche di Exeter e Cambridge, si è concentrato sugli uccelli acquatici perché sono ben studiati e vivono in molte località del mondo e la loro mobilità significa che, in base alla qualità delle condizioni di un sito, possono colonizzarlo rapidamente o abbandonarlo altrettanto velocemente.
I ricercatori hanno esaminato l’impatto di 1.500 aree protette (in 68 Paesi) su oltre 27.000 popolazioni di uccelli acquatici, ma è probabile che i risultati abbiano una rilevanza più ampia per la salvaguardia di tutte le specie.
La principale autrice dello studio, Hannah Wauchope del Center for Ecology and Conservation del Penryn Campus di Exeter, spiega: «Sappiamo che le aree protette possono prevenire la perdita di habitat, soprattutto in termini di fermare la deforestazione.
Tuttavia, comprendiamo molto meno come le aree protette aiutino la fauna selvatica.
Il nostro studio dimostra che, mentre molte aree protette funzionano bene, molte altre non riescono ad avere un effetto positivo.
Invece di concentrarci esclusivamente sull’area globale protetta totale, abbiamo bisogno di maggiore attenzione per garantire che le aree siano ben gestite a beneficio della biodiversità».
Lo studio utilizza un metodo “”before-after-control-intervention” che confronta i trend delle popolazioni di uccelli acquatici prima dell’istituzione di aree protette con i trend successivi e confrontando anche i trend delle popolazioni di uccelli acquatici simili all’interno e all’esterno di aree protette.
Questo ha fornito un quadro molto più accurato e dettagliato rispetto agli studi precedenti.
La Wauchope ci tiene a precisare che «non stiamo dicendo che le aree protette non funzionino.
Il punto chiave è che i loro impatti variano enormemente e la cosa più importante da cui dipende questo è se sono gestite tenendo conto delle specie: non possiamo semplicemente aspettarci che le aree protette funzionino senza una gestione adeguata.
Sembra anche che le aree protette più grandi tendano ad essere migliori di quelle più piccole».
Il team di ricerca comprendeva scienziati di Wetlands International e delle università di Bangor, Queensland, Copenaghen e Cornell, per raccogliere i dati sulle popolazioni di uccelli acquatici lo studio si è basato sul lavoro di molte migliaia di volontari di tutto il mondo organizzati dalla Christmas Bird Count della National Audubon Society e dall’International Waterbird Census di Wetlands International.
Una delle autrici dello studio, Julia Jones della Bangor University, ha evidenziato che «per rallentare la perdita di biodiversità, abbiamo bisogno di una migliore comprensione di quali approcci di conservazione funzionano e quali no.
Questa analisi fornisce indicazioni davvero utili su come la conservazione può essere migliorata per fornire risultati migliori per le specie».
Intervistata da BBC News la Wauchope ha riassunto così il senso dello studio: «Occorrono regole vigenti e ripristino.
Non possiamo semplicemente tracciare una linea attorno a un’area e dire: “qui non si può costruire un parcheggio.
Lo studio ha utilizzato l’andamento della popolazione degli uccelli delle zone umide come misura del successo di un’area protetta, che può essere qualsiasi cosa, da un’area di straordinaria bellezza naturale a una riserva naturale gestita con cura.
Nella maggior parte dei luoghi in cui abbiamo guardato, le popolazioni di animali selvatici erano ancora stabili o stavano aumentando, ma non stavano andando meglio che nelle aree non protette.
E’ deludente, ma non sorprendente.
Sembra esserci questa disconnessione tra le persone che parlano di quanto territorio è protetto e se quelle aree stanno effettivamente facendo qualcosa di positivo».
La Jones conclude: «L’ossessione di raggiungere un determinato obiettivo basato sull’area – come il 30% entro il 2030 – senza concentrarsi sul miglioramento delle condizioni delle aree protette esistenti porterà a poco.
Quando i leader mondiali si riuniranno in Cina entro la fine dell’anno per fissare obiettivi per il prossimo decennio, spero davvero di vedere un focus sull’efficacia delle aree protette, piuttosto che semplicemente su quanta superficie è loro dedicata».
(Articolo pubblicato con questo titolo il 22 aprile 2022 sul sito online “greenreport.it”)