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Il degrado di suolo, biodiversità e natura mette a rischio il benessere di 3,2 miliardi di persone

28 Marzo 2018
in ARCHIVI, GOVERNO DEL TERRITORIO, NATURA, NEWS, piani territoriali
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«Il peggioramento del degrado dei suoli causato dalle attività umane sta minando il benessere dei due quinti dell’umanità, determinando l’estinzione delle specie e intensificando il cambiamento climatico. 

È anche un importante contributo alla migrazione umana di massa e all’aumento dei conflitti».

È quanto si legge dalla prima valutazione globale del degrado e del ripristino del territorio, realizzata dall’Intergovernmental science-policy platform on biodiversity and ecosystem services (Ipbes), in collaborazione con Unesco,  United nations devlopmen programme (Undp) e Fao, e approvata dai 129 membri dell’Ipbes durante la loro sesta sessione plenaria che si è tenuta a Medellin, in Colombia.

Dal rapporto, che si basa su più di 3.000 fonti scientifiche e al quale hanno lavorato 100 esperti provenienti da 45 Paesi, emerge che  nel 2010  i rischi del degrado del suolo sono costati  circa il 10% del prodotto mondiale lordo e che «la rapida espansione e la gestione insostenibile delle terre coltivate e dei pascoli è il più esteso fattore di distruzione del suolo, causando una significativa perdita di biodiversità e servizi ecosistemici: sicurezza alimentare, depurazione delle acque, fornitura di energia e di altri contributi della natura essenziali per le persone. Tutto questo ha raggiunto livelli “critici” in molte parti del mondo».

Il sudafricano  Robert Scholes che ha guidato il team di ricerca insieme all’italiano Luca Montanarella, spiega che «con impatti negativi sul benessere di almeno 3,2 miliardi di persone, il degrado delle terre emerse causato dalle attività umane sta spingendo il pianeta verso una sesta estinzione di massa delle specie.

Evitare, ridurre e invertire questo problema e ripristinare terreni degradati, è una priorità urgente per proteggere la biodiversità e i servizi ecosistemici vitali per tutta la vita sulla Terra e per garantire il benessere umano».

Montanarella  sottolinea che «le zone umide sono state particolarmente colpite. all’inizio dell’era moderna abbiamo assistito alla perdita dell’87% nelle zone umide, con il 54% scomparse dal 1900».

Secondo gli autori dello studio «il degrado del suolo si manifesta in molti modi: abbandono della terra, popolazioni di specie selvatiche in declino, perdita di suolo e di salute del suolo, di pascoli e acqua dolce, così come con la deforestazione».

Il rapporto afferma che «i fattori alla base del degrado del territorio sono gli stili di vita ad alto consumo nelle economie più sviluppate, combinati all’aumento del consumo nelle economie in via di sviluppo ed emergenti. 

Il consumo pro capite elevato e in aumento, amplificato dalla continua crescita della popolazione in molte parti del mondo, può portare a livelli insostenibili di espansione agricola, sfruttamento delle risorse naturali e estrazione mineraria e urbanizzazione, che in genere portano a un maggiore livello di degrado del territorio».

Nel 2014, oltre 1,5 miliardi di ettari di ecosistemi naturali erano stati convertiti in terre coltivabili. Meno del 25% della superficie terrestre della terra è sfuggito a forti impatti dell’attività antropica e gli esperti Ipbes stimano che  nel 2050 queste aree saranno calate a meno del 10%.  Attualmente, le terre coltivate e i pascoli coprono più di un terzo delle terre emerse del nostro pianeta e anche di recente sono stati eliminati habitat autoctoni, comprese foreste, praterie e zone umide, dove si concentrano alcuni degli ecosistemi più ricchi di specie della Terra.

Il rapporto evidenzia che «l’aumento della domanda di cibo e biocarburanti porterà probabilmente a un continuo aumento degli apporti di sostanze nutritive e chimiche e  uno uno spostamento verso sistemi di produzione zootecnica industrializzati, con l’uso di pesticidi e fertilizzanti che dovrebbe raddoppiare entro il 2050.

La possibilità di fermare un’ulteriore espansione agricola negli habitat autoctoni può essere ottenuta aumentando la resa nelle aree agricole esistenti, passando a diete meno “degradanti”, come quelle con più alimenti a base vegetale e meno proteine ​​animali da fonti non sostenibili e  con riduzioni della perdita e dello spreco di cibo».

Il presidente dell’Ipbes, Sir Robert Watson, è convinto che «attraverso questo rapporto, la comunità globale di esperti ha dato un avvertimento franco e urgente, con opzioni chiare per affrontare il grave danno ambientale.

Il degrado del suolo, la perdita di biodiversità e il cambiamento climatico sono tre diversi volti della stessa sfida centrale: l’impatto sempre più pericoloso delle nostre scelte sulla salute del nostro ambiente naturale. 

Non possiamo permetterci di affrontare ognuna di queste tre minacce in modo isolato: ognuna merita la massima priorità politica e devono essere affrontate insieme».

Il rapporto Ipbes rileva che il degrado del suolo rappresenta un importante contributo al cambiamento climatico, con la sola deforestazione che contribuisce a circa il 10% di tutte le emissioni di gas serra prodotte dall’uomo. 

Un altro fattore importante del cambiamento climatico è l’emissione di carbonio precedentemente stoccato nel suolo, con il degrado del suolo che tra il 2000 e il 2009 è stato responsabile di emissioni globali annue fino a 4,4 miliardi di tonnellate di CO2.

All’Ipbes  sottolineano che «data l’importanza delle funzioni di assorbimento e stoccaggio del carbonio nel suolo, l’eliminazione, la riduzione e l’inversione del degrado del terreno potrebbero fornire più di un terzo delle attività di riduzione dei gas serra più economiche necessarie entro il 2030 per mantenere il riscaldamento globale sotto la soglia dei 2° C prevista nell’Accordo di Parigi sui cambiamenti climatici, aumentare la sicurezza alimentare e idrica e contribuire a evitare conflitti e migrazioni».

Infatti, aggiunge Scholes, «si stima che tra poco più di tre decenni 4 miliardi di persone vivranno in territori aridi.

A quel punto è probabile che il degrado del suolo, insieme ai problemi strettamente correlati dei cambiamenti climatici, costringerà 50 – 700 milioni di persone a migrare. 

La diminuzione della produttività del suolo rende anche le società più vulnerabili all’instabilità sociale, in particolare nelle zone aride, dove gli anni con precipitazioni estremamente basse sono stati associati a un aumento dei conflitti violenti fino al 45%».

Montanarella concorda: «Si prevede che, entro il 2050, la combinazione di degrado del suolo e i cambiamenti climatici in alcune regioni ridurrà i raccolti globali in media del 10%, e fino al 50%. 

In futuro, la maggior parte del degrado si verificherà in America centrale e meridionale, nell’Africa subsahariana e in Asia, le aree con la maggior quantità di terra rimasta adatta all’agricoltura».

Il rapporto sottolinea anche le sfide poste dal degrado del suolo e l’importanza del suo ripristino per rispettare gli obiettivi chiave di sviluppo internazionale, compresi gli Obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Onu e quelli sulla biodiversità di Aichi approvati dalla Convention on biologica diversiy (Cbd).

La segretaria esecutiva dell’Ipbes, Larigauderie, ha fatto notare che «il valore più grande di questa valutazione è l’evidenza che fornisce ai decision makers dei governi, al business, al  mondo accademico e persino a livello delle comunità locali.

Con una migliore informazione, supportata dal consenso dei maggiori esperti mondiali, possiamo fare tutti scelte migliori per un’azione più efficace».

Il rapporto presenta esempi positivi di ripristino del territorio che si trovano in ogni ecosistema e fa presente che molte buone pratiche e tecniche ben collaudate, sia tradizionali che moderne, possono evitare o invertire il degrado. ad esempio, nelle terre coltivate ci sono esperienze di riduzione della perdita di suolo e di miglioramento della salute del suolo,  di utilizzo di colture che tollerano una maggiore salinità, di agricoltura conservativa e di sistemi integrati di coltivazione, allevamento e silvicoltura.

Nei pascoli tradizionali, il mantenimento di appropriati regimi antincendio e la reintegrazione o lo sviluppo di pratiche e istituzioni locali di gestione del bestiame si sono dimostrati efficaci.

Le iniziative di successo nelle zone umide comprendono il controllo delle fonti di inquinamento, la gestione delle zone umide come parte del territorio e il riutilizzo delle zone umide danneggiate dal drenaggio.

Nelle aree urbane, la pianificazione dello spazio urbano, il reimpianto di specie autoctone, lo sviluppo di “infrastrutture verdi” come parchi e fiumi, il risanamento di terreni contaminati e ricoperti (ad esempio sotto l’asfalto), il trattamento delle acque reflue e il ripristino dei canali fluviali vengono identificati come opzioni chiave per agire.

Le opportunità per accelerare le azioni identificate nel rapporto includono:

Miglioramento del monitoraggio, dei sistemi di verifica e dei dati di base;

Coordinare la politica tra diversi ministeri per incoraggiare simultaneamente pratiche di produzione e consumo più sostenibili di commodities provenienti dalla terra;

Eliminare gli “incentivi perversi” che promuovono il degrado del suolo e promuovere incentivi positivi che premiano la gestione sostenibile del suolo;

Integrazione delle agende agricole, forestali, energetiche, idriche, infrastrutturali e dei servizi.

Gli autori ricordano che «gli accordi ambientali multilaterali esistenti offrono una buona piattaforma per evitare, ridurre e invertire il degrado del suolo e promuoverne il ripristino», ma osservano che «tuttavia, che è necessario un maggiore impegno e una cooperazione più efficace a livello nazionale e locale per raggiungere obiettivi di degrado zero del suolo, nessuna perdita di biodiversità e miglioramento del benessere umano».

Ma la ricerca su questi temi ha ancora molte lacune e il rapporto individua alcune aree da studiare ulteriormente:

Le conseguenze del degrado del suolo sugli ecosistemi delle acque dolci e costiere, sulla salute fisica e mentale e sul benessere spirituale e sulla prevalenza e trasmissione delle malattie infettive; Il potenziale  del degrado del suolo  di esacerbare i cambiamenti climatici e del ripristino dei terreni per aiutare sia la mitigazione che l’adattamento;

I legami tra degrado del suolo e ripristino di processi sociali, economici e politici in luoghi lontani;  Le interazioni tra degrado del suolo, povertà, cambiamenti climatici e rischio di conflitti e di migrazione non volontaria.

Il rapporto rivela che «un aumento del lavoro e di altri benefici del ripristino del suolo superano spesso di gran lunga i costi. 

In media, i benefici del ripristino sono 10 volte maggiori  dei costi (stimati in 9 diversi biomi) e, per regioni come l’Asia e l’Africa, il costo dell’inattività in termini di degrado del suolo è almeno tre volte superiore al costo dell’azione».

Per Montanarella, «il pieno dispiegamento congiunto di  strumenti e modi comprovati per fermare e invertire il degrado del suolo non è solo vitale per garantire la sicurezza alimentare, ridurre i cambiamenti climatici e proteggere la biodiversità, è anche economicamente prudente e sempre più urgente».

Sir Watson conclude: «Tra i molti messaggi importanti del rapporto, questo è tra i più importanti: implementare le giuste azioni per combattere il degrado del territorio può trasformare la vita di milioni di persone in tutto il pianeta, ma questo diventerà più difficile e più costoso quanto più tardi ne prenderemo atto».

(Articolo pubblicato con questo titolo il 27 marzo 2018 sul sito online “greenreport.it”)

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