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30 anni di legge sulla caccia e protezione della fauna selvatica. Legambiente: una normativa superata

27 Febbraio 2022
in APPROFONDIMENTI, ARCHIVI, CACCIA E ANIMALI, GOVERNO DEL TERRITORIO, MATERIE TRATTATE, NATURA, NEWS, piani faunistici venatori provinciali e regionali, piani territoriali
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30 anni fa il Parlamento approvava la legge n. 157/1992 che tutela fauna selvatica omeoterma (mammiferi e uccelli) e disciplina l’attività venatoria.  

Legambiente ricorda che si tratta di «una legge – l’unica fino ad ora che, sull’intero territorio nazionale, tutela in minima parte la fauna selvatica – figlia del compromesso seguito alla bruciante sconfitta referendaria del 1990 che chiedeva l’abolizione della caccia in Italia, ma che ad oggi a distanza di 30 anni risulta ormai “datata” e non più rispondente alle urgenze connesse con la crisi della biodiversità.

Primo fra tutti, la normativa tutela un misero 1,1% di tutte le specie animali presenti stabilmente o temporaneamente nel nostro territorio.

Parliamo di 643 specie e sottospecie (comprese le specie di mammiferi e uccelli marini) protette su un totale complessivo di 57.460 specie e sottospecie di animali selvatici noti per l’Italia.

Inoltre non regolamenta le tante attività umane come agricoltura, forestazione e viabilità che hanno quotidiana relazione con la fauna selvatica omeoterma».

E che si tratti di una legge datata e figlia del secolo scorso lo evidenzia il fatto che, come evidenzia il Cigno Verde, «a dispetto delle crescenti minacce alla biodiversità, la legge delega la responsabilità della gestione attiva della fauna selvatica omeoterma alla caccia privata in oltre 4 milioni di ettari e, sostanzialmente, sempre ai cacciatori in altri 19 milioni di ettari destinati a caccia programmata, lasciando poco più di 3 milioni di ettari per la tutela della fauna gestiti da Enti pubblici. 

Uno squilibrio con gli interessi generali del Paese».

La denuncia di Legambiente è contenuta nel report “La tutela della fauna selvatica e il bracconaggio in Italia” nel quale l’associazione  fa un’analisi accurata della legge 157/1992 e sulla sua genesi, ma anche sull’attività e la popolazione venatoria,  che «dal 1992, anno di approvazione della legge quadro, si è più che dimezzata passando da un milione di praticanti a circa 500.000 ma, soprattutto, è drasticamente invecchiata andando da oltre il 60% dei praticanti con meno di 40 anni di età all’attuale 9% dei praticanti nella medesima fascia età»  e sulla piaga del bracconaggio.

Dal rapporto emerge che nel nostro Paese, dal 2009 al 2020, «sono stati riscontrati oltre 35.500 illeciti contro la fauna selvatica, ben 2.960 ogni anno, con una media di quasi 250 illeciti riscontrati ogni mese, che hanno portato alla denuncia di oltre 21.600 persone, poco più di 1.800 ogni anno, più di 150 ogni mese, con oltre 21.900 sequestri, oltre 1.800 ogni anno, circa 150 al mese, e all’arresto di 175 persone, 15 ogni anno, 1 ogni mese». 

Il numero più alto di reati si è registrato nel Lazio (5.049 illeciti), in Lombardia (3.657) e Campania (2.937).

Ecco i principali punti del rapporto:

Attività venatoria in Italia: Il numero complessivo di specie di mammiferi e uccelli cacciabili in Italia corrisponde oggi a ben 48 specie e rimane in assoluto uno dei più alti in tutta Europa, molto sopra la media europea che si ferma a 27 specie cacciabili. 

Per quanto riguarda le aree dove vige il divieto di caccia e dove invece è consentito, Legambiente nel report sottolinea che la SAP, la superficie complessiva oggi destinata ad aree protette in Italia, in cui vige il divieto di caccia, è pari a 3,173 milioni di ettari, corrispondenti al 10,5% del territorio nazionale (dati MiTE ex MATTM, 2019) e pari a circa l’11,8% della SASP (Superficie Agro-Silvo Pastorale).

Tutte le Regioni italiane hanno destinato in toto il 15% della loro SASP, ossia complessivamente circa 4 milioni di ettari, a caccia privata, corrispondente al 13,27% del territorio nazionale.

Il 73,2% della SASP, pari a circa 19,76 milioni di ettari, è destinato a caccia programmata, corrispondente al 65,58% del territorio nazionale.

Bracconaggio.

I bracconieri hanno quindi a loro disposizione il 90% del territorio italiano, composto da coste, pianure, colline e montagne, quella superficie agro-silvo-pastorale che complessivamente supera i 270.000 chilometri quadrati (27 milioni di ettari).

Un’area enorme, in cui, considerando anche soltanto un potenziale del 5% di cacciatori praticanti e agricoltori/allevatori/boscaioli si muovono 80.000 bracconieri.

Ad oggi la maggior parte dei casi di criminalità nei confronti degli animali rimane sconosciuta e quindi impunita.

Nel report Legambiente stima che, in condizioni normali, venga colto con le mani nel sacco un bracconiere su 20.

Ad esempio, in condizioni di controllo del territorio esercitato da un Carabiniere forestale ogni 1.000 ettari, come previsto per i Parchi nazionali, c’è qualche chance in più rispetto a dove, invece, il rapporto scende a meno di una guardia ogni 10.000 ettari.

Nelle attuali condizioni, la stima ragionevole è che possa essere preso solo un bracconiere ogni 100 o 150 azioni di bracconaggio, forse anche meno.

Quindi rispetto ai 35.500 illeciti accertati in dodici anni, è verosimile siano accaduti, negli stessi dodici anni di tempo, tra i 3.500.000 e i 5.325.000 episodi illeciti contro la fauna selvatica.

Fauna nel mirino e prezziario del bracconaggio. 

L’attività dei bracconieri si concentra, soprattutto, su piccoli passeriformi, ungulati, anatidi, richiami vivi e caccia senza attenzione alle regole. 

I piccoli passeriformi, dai turdidi ai fringillidi, dalle beccacce alle allodole, dal Trentino fino alla Sicilia, vengono catturati piccoli nei nidi o adulti con reti, trappole e ogni altro mezzo, per poi essere venduti vivi, come richiami ai cacciatori italiani che ancor oggi ne possono far uso, o morti, per i ristoratori che offrono, ben pagati, piatti a base di uccellini.

Ogni anno, le stime più attendibili indicano da uno a due milioni di animali che finiscono in questo circuito, per un giro di affari che oscilla tra i 50 e i 70 milioni di euro.

Gli ungulati, cinghiali in primis ma anche caprioli, cervi e daini, vengono uccisi a fucilate o catturati con lacci o trappole e, senza alcun controllo sanitario, macellati e venduti ad agriturismi e trattorie di tutta la penisola.

Ogni anno alcune centinaia di migliaia di animali vengono uccisi per alimentare questo circuito, per un giro di affari che oscilla tra i 70 e i 100 milioni di euro.

Gli anatidi sono un ambito trofeo di caccia e, di conseguenza, le postazioni (botti) da cui possono essere cacciati sono altrettanto ambite e profumatamente pagate.

Il bottino, germani reali, moriglioni, alzavole, marzaiole, ma anche le specie minacciate come la moretta tabaccata, supera i 100.000 animali all’anno per un giro di affari, tra “affitto” delle botti e vendita degli animali uccisi ai ristoranti, compreso tra i 30 e i 50 milioni di euro.

Molti cacciatori, soprattutto di Lombardia, Veneto, Toscana e Lazio, bramano di poter fare la caccia ai migratori senza limiti di carniere o di specie imposti dalla legge. All’estero e in alcune aree del Paese, come Campania, Puglia, Basilicata, Calabria, Sicilia e nelle aree private (quindi difficilmente accessibili) nel Delta del Po, in particolare nelle province di Rovigo, Ferrara e Ravenna, vengono offerti pacchetti di “turismo venatorio” del tutto illegali, senza limiti di carniere o di specie.

Ogni anno, per alimentare queste vacanze illegali vengono uccisi centinaia di migliaia di animali, per un giro di affari tra i 50 e i 100 milioni di euro.

Di fronte a questo quadro, nel complesso preoccupante, Legambiente lancia oggi anche le sue proposte ribadendo «l’urgenza di modificare, adeguandola alle urgenti crisi di oggi, la legge quadro per tutelare tutte le specie animali selvatiche, inserendo anche i delitti per gli illeciti contro gli animali selvatici nel codice penale, regolamentando la coesistenza con le tante attività umane che quotidianamente hanno relazione con la fauna selvatica;  prevedendo inoltre adeguati strumenti e risorse affinché ciò si realizzi, compreso il rafforzamento del sistema sanitario veterinario per la prevenzione di zoonosi e patologie animali che possano avere pesanti ricadute sociali».

L’associazione ambientalista, ribadisce inoltre l’importanza di: 

1) Ripensare la pianificazione del territorio agro-silvo-pastorale per la tutela della biodiversità e di tutte le specie animali selvatiche, 

2) Impedire che sia una sola categoria sociale a “guidare” le scelte di gestione della fauna selvatica omeoterma; 

3) Rafforzare, in personale, strumenti e risorse, e specializzare il personale degli organi inquirenti; 

4) Approntare un sistema pubblico trasparente, digitale, regolarmente alimentato e accessibile a tutti di pubblicazione dei dati sulla gestione della fauna selvatica.

Antonino Morabito, responsabile nazionale Cites, fauna e benessere animale di Legambiente, conclude: «Con l’inserimento della tutela dell’ambiente nella nostra Costituzione – dichiara  – si apre per l’Italia una nuova e feconda pagina per costruire quei cambiamenti necessari ed importantissimi per l’effettiva ed efficace tutela della biodiversità e degli ecosistemi, compresa la fauna selvatica elemento fondante e vitale di entrambi, quale precondizione essenziale per la qualità della vita, del benessere e della salute dell’uomo.

Al Governo e Parlamento chiediamo di adeguare il quadro normativo per la tutela della fauna selvatica in Italia e di individuare le Istituzioni pubbliche che, per precipua finalità istituzionale, siano concretamente e direttamente impegnate a garantire tale importante interesse collettivo del Paese.

Ogni giorno “perso” è un giorno in più con migliaia di animali selvatici uccisi e torturati, senza alcuna possibilità di tutela della biodiversità di cui sono parte essenziale.

Le molteplici esigenze di tipo sanitario che hanno travolto la società in questi ultimi anni rendono ancor più urgente tale intervento».

(Articolo pubblicato con questo titolo il 25 febbraio 2022 sul sito online “greenreport.it”)

 

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